Dagli zoo umani all’etnoturismo

Inserito da Giorgio Gatta venerdì 23 marzo 2012

In questi mesi a Parigi è stata allestita una grande mostra per ricordare una pagina cancellata della storia d’Europa, gli zoo umani. Nelle esposizioni universali a cavallo tra Ottocento e Novecento – quelle di Bruxelles, Londra, Milano, Parigi, Barcellona – una delle principali attrattive erano i cosiddetti “giardini di acclimatamento”, nei quali non ci si limitava a presentare la flora e la fauna dei Paesi esotici, all’epoca quasi tutti colonizzati dall’Europa. In questi veri e propri zoo veniva riprodotta anche la vita dei popoli tribali.


Intere famiglie di pigmei, di amerindi della Terra del Fuoco e dell’Amazzonia, di boscimani sudafricani, di karen birmani strappati dai loro villaggi con la forza o con l’inganno dovevano recitare la loro vita quotidiana davanti agli occhi dei borghesi delle metropoli europee. Molti morivano di malattia, altri finivano rovinati dall’alcool, diversi si suicidavano, pochi tornavano a casa.


Nel XXI secolo gli zoo umani non sono più ammissibili. In compenso si praticano tranquillamente i safari umani. Quelli che si celano dietro il cartello politicamente corretto di “etnoturismo”, una tipologia di viaggio costosa, che porta il turista a contatto con popoli indigeni sui loro territori ancestrali. Le etnie oggetto di questo turismo sono le stesse che un tempo venivano esposte nei giardini di acclimatamento. Tranne quelle nel frattempo scomparse, è ovvio.


La più grande ONG che si batte per i diritti dei popoli tribali, Survival International, chiede da anni il bando del turismo cosiddetto etnico, perché fatto sulla pelle degli indigeni senza che essi ne ricavino alcun vantaggio. Anzi, molti di questi popoli a contatto con il turismo si sono ridotti a recitare, a banalizzare la loro cultura tradizionale a vantaggio degli spettatori di turno. Basta pensare a ciò che è accaduto ai masai del Kenya, alle finte cerimonie induiste a Bali, alla cremazione dei corpi in India o ai rituali del vudù haitiano.


Spesso chi assiste a queste esibizioni non ha coscienza del fatto che la mercificazione di riti e tradizioni è causa di gravi danni culturali. Quando però il turista sceglie di addentrarsi nei territori tribali, oltrepassa consapevolmente un limite che in molti Paesi è invalicabile anche dal punto di vista legale. In tutto il mondo, gran parte delle popolazioni indigene vive in zone che suscitano grandi appetiti economici, spesso scenario di violenze e conflitti armati. La cronaca riporta con regolarità notizie di turisti “avventurosi” che vengono derubati, sequestrati o uccisi: ma, evidentemente, questo non basta per far riflettere sull’inopportunità di recarsi in posti nei quali non si è voluti. E nemmeno a mettere in guardia sui rischi che, andandoci, si potrebbero correre.


Esistono piccole esperienze di turismo responsabile pensate insieme a popoli indigeni, in America Latina e in Asia. Sono viaggi ideati e realizzati con alcune comunità locali che hanno deciso di ricevere turisti e pongono limiti e vincoli alla loro presenza. Da questi visitatori ricavano un vantaggio economico che verrà utilizzato per progetti comunitari; per di più gli uomini e le donne accolti nelle comunità diventano spesso sostenitori delle loro cause. Il resto è un triste teatrino, molto spesso allestito con la complicità di regimi totalitari che utilizzano le etnie autoctone per attirare turisti: un’ulteriore umiliazione per popoli che hanno già subito troppo.


Alfredo Somoza* per Esteri (Popolare Network)

*di ICEI ed ex presidente di AITR


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