Passeggiare per la Linea Gotica

Inserito da Giorgio Gatta lunedì 03 settembre 2018

Alcuni ragazzi di Faenza, il sette aprile scorso, hanno camminato lungo gli argini del Senio, da Felisio a Casal Borsetti: ecco il loro racconto.


Il primo battaglione passeggiatori si raduna assonnato al binario 5 della stazione di Faenza. L’appello è presto fatto: Barolo, Teti, Boschi, Pierino, Poldo e Malthus. Questi sono i loro nomi di battaglia, e tanto vi deve bastare. L’aspetto è piuttosto trasandato, fatta eccezione per quell’elegantone di Pierino, e improntato all’abbigliamento tecnico della grande distribuzione, tanto che in corso d’opera il manipolo sarà ribattezzato Brigata Quechua. Destinazione ponte di Felisio; per arrivarci, i Nostri devono prendere il treno per Castel Bolognese e attendere la coincidenza per Solarolo: un’ora e spiccioli per coprire la distanza di otto chilometri. Una camminata a rotaie. Alla stazione d’arrivo comincia il viaggio, un’Odissea di una sessantina di chilometri fino al mare per ripercorrere la Linea Gotica e celebrare la sua Liberazione, avvenuta il 12 aprile del 1945. Le regole sono poche, confuse e scontate: divertirsi, portare a casa la pellaccia e lasciare che il cervello si svuoti nella natura e nella storia degli argini di un torrente. Lo sfondo di questo peregrinare è la bassa Romagna, quella più profonda. Lontana dalla seduzione del mare e dalle malinconie della collina. Qui, se al bar leggi la Gazzetta per più di cinque minuti, ti chiedono di farlo – almeno – ad alta voce.

 

Imboccato l’argine destro del Senio a Felisio, dopo 500 metri la compagnia deve rendere omaggio agli Alleati con un brunch di chiara foggia romagnola. Gli amici Gianca e Paola aprono la loro casa in area golenale ai passeggiatori: omelette, pane e pancetta. E una foto di Gianca, se possibile ancora più magro, e della sua 500 durante un viaggio iniziatico a Parigi, in cui il vero lusso era dormire su un materasso adagiato sul pavimento. Paola, invece, dopo la foto di rito, accompagna il drappello per la prima ora e mezza. Il passo è disteso, la chiacchiera diffusa, il respiro leggero. All’altezza del Canale Emiliano Romagnolo c’è un piccolo omaggio all’Arena delle Balle di Paglia ancora in divenire: in pratica un campo di grano acerbo.


Seconda sosta al Bar Sport dove si reintegrano i sali con un paio di medie acquistate con la cassa comune, anche se la minoranza menscevica proponeva l’esproprio proletario. La tradotta osserva un momento di raccoglimento nel giardino dei Giusti di Cotignola che ricorda, caso unico nella storia, l’eroismo di un intero paese che accolse e difese intere famiglie ebree dalla persecuzione nazista. Un sistema che aveva come vertice il prefetto, di nomina fascista, e il parroco del paese. Un’azione che ha fatto guadagnare a Cotignola un posto fra i Giusti delle Nazioni. Scorrendo i nomi degli sfollati si scopre che Ernesto de Martino, il più importante antropologo del Novecento italiano, visse due anni in terra di Romagna dove insegnò come supplente al liceo classico di Faenza e scrisse gran parte del suo capolavoro: Il mondo magico.


Il sole è alto, è una primavera ferragostana; Malthus, di mestiere bancario, ma nei suoi sogni più sfrenati un Nibali più veloce in volata, individua ogni fonte di acqua potabile. Il cammino è segnato da steli commemorative, una lunga teoria di nomi esotici: indiani, neozelandesi, polacchi. Ogni passo è una Spoon River di ventenni che morirono su questo pezzo di terra in nome della libertà. Il pranzo consiste in un panino fugace, c’è chi si cambia i calzini e chi no. I cerotti per le vesciche sono ormai un bene di prima necessità, e delineano le prime cesure. Chi non li ha, Boschi e Poldo, sa che non arriverà alla fine. Con un po’ di cinismo, vengono rinominati i Tedeschi.


Dopo il pranzo, i peripatetici riprendono a battere la strada, guidati dall’odore asprigno dell’aceto. La mappa indica San Potito, il cui acetificio è stato rilevato, in tempi recenti, dagli Americani. Il primo pomeriggio si dipana fra tornei di calcio giovanili, passaggi maleodoranti su biodigestori a dispersione e piscine mastodontiche in attesa dell’estate che verrà. Alfonsine è il punto d’arrivo, dopo 35 chilometri, della prima giornata. Un paesone letteralmente raso al suolo dai bombardamenti degli Alleati e ricostruito, nel Dopoguerra, sull’argine sbagliato, quello sinistro. Per fedeltà filologica, la Brigata Quechua decide di dormire su quello giusto, il destro. In una vecchia casa colonica, adibita ad agriturismo, il sestetto ha deciso di riposare le membra. Le camere vengono assegnate con il vecchio azzardo del cerino più corto, chi lo prende dormirà con quello che russa di più; manco a dirlo: un Tedesco. Fra pizze, birre (che in una vera camminata sostituiscono il Polase), suocere tedesche smarrite in aeroporto, beccaccini sanguinosi e grappe Jiulia invecchiate a loro insaputa, passa la serata. I Tedeschi evocano il loro destino perdendo, fin da subito, ogni giro di carte. L’andata a letto è contraddistinta da un uso smodato di artiglio del diavolo e crema per emorroidi cosparse su ogni falange dei piedi. Il silenzio della notte è rotto dal russare del Tedesco e dal bippìo isterico degli smartphone riaccesi dopo una giornata di silenzio.

 

SECONDA GIORNATA


Gli Alleati sono un gruppo di pensionati che hanno comprato uno stuolo di Harley Davidson bruciando tutto il loro TFR. I Tedeschi, ormai vinti dalla fatica e dalle vesciche, li osservano, nascosti dall’ombra, mentre imbarcano i loro mostri d’acciaio sul traghetto di Sant’Alberto. Dall’altra parte del Senio, ormai diventato fiume Reno, Teti, Barolo, Malthus e Pierino vanno incontro alla Storia perdendosi nell’Oasi di Boscoforte. 15 chilometri di ‘nimali beliszimi, di pescatori di pesce siluro dove il premio è la lotta e non il pescato, insomma: alla vittoria si va incontro scarpinando per le terre di Anita Garibaldi. Terre leggendarie, oggi luogo privilegiato per il bird watching, per la caccia in botte e per i lavorieri delle anguille. In questo luogo sospeso nel tempo, la realtà arriva improvvisa con la notizia che un caro amico della carovana, nome di battaglia Otanta, non se la passa affatto bene. Durante il camminare, la combriccola ne ha parlato molto, perché il padre ha scritto, all’età di sedici anni, molte pagine, in fase di stampa, che raccontano l’adolescenza ai tempi della guerra. Fatti, persone, avvenimenti che chi cammina su questa terra tenera, fatta di acqua e di Storia, può appena intuire.


La piccola narrazione dei Nostri termina con il prosciugamento della cassa comune, bottino di guerra depredato al Reich, investita in quattro birrette alla Trattoria Primaro, e nel confine della Romea. Il profilo del mare giunge inaspettato, come se sapesse che essere un punto di arrivo è più un obbligo che un destino. La camminata sfinisce nel poligono militare di Casal Borsetti, dove capisci che la guerra non finirà mai perché il filo spinato bordeggia la pineta.

E il mare è solo un odore.

 

LA FINE È UN ATTIMO


I 60 chilometri, metro più metro meno, sfumano in una malinconia difficile da condividere, in abbracci appena accennati, in una realtà che torna a essere imperante. I Tedeschi salutano claudicanti i vincitori. In ogni viaggio, se fatto seriamente, il passo dell’addio è quello più difficile.


Perdere è una questione di metodo.


del Totally Unnecessary Club, sezione Sport



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