Bracconieri? O custodi della foresta?

Foto: donna Baka (Congo) © Fiore Longo / Survival
Inserito da Giorgio Gatta lunedì 24 settembre 2018

Eboukou aveva visto sua moglie Iyeki (nomi fittizi per proteggerne l’identità) allontanarsi alla ricerca di patate dolci. La rivide poco dopo correre per la foresta senza vestiti, in fuga da qualcosa. Ci mise un attimo a capire: stavano arrivando le guardie forestali. Il pareo di tela che portava si era slacciato, ma Iyeki era troppo spaventata per fermarsi a raccoglierlo.


Eboukou era già stato picchiato dalle stesse guardie qualche settimana prima, mentre raccoglieva miele selvatico. Era svenuto per il dolore. «Quando mi sono svegliato ho iniziato a piangere», ci ha raccontato. Non appena le guardie se ne furono andate, lui e la sua famiglia avevano spostato subito l’accampamento, ma le guardie avevano seguito le loro tracce e li avevano ritrovati.


Questa volta andò peggio. Diedero fuoco alla casa, buttarono i loro vestiti tra le fiamme e con i machete fecero a pezzi gli utensili da cucina e le zanzariere.


Il loro bimbo più piccolo fuggiva nella foresta terrorizzato, da solo, mentre le guardie picchiavano e frustavano di nuovo Eboukou. Ancora una volta lo umiliarono, costringendolo a mettersi in ginocchio, e lo interrogarono. L’uomo spiegò che lui e la moglie volevano soltanto raccogliere erbe selvatiche e che con sé avevano solo una lancia, una rete e un cane da caccia.


I popoli indigeni vengono sfrattati dalle loro terre nel nome della conservazione della flora e della fauna, mentre quelle stesse terre vengono aperte al turismo, ai cacciatori di trofei, al bracconaggio e alle imprese che ne sfruttano le risorse. Un paradosso? È il caso dei Bayaka, pigmei delle foreste del Congo.


Per molti cacciatori-raccoglitori Bayaka del Congo come Eboukou e Iyeki, conservazione dell’ambiente significa spesso solo questo: violenze e furto di terra. Survival International, il movimento mondiale per i popoli indigeni, ha documentato decine di casi simili: molestie, pestaggi e torture ai danni di uomini, donne, bambini e anziani, e persino persone disabili.


Il Parco nazionale di Nouabale Ndoki, nella Repubblica del Congo, fu creato dal governo nel Capodanno 1993: in un attimo, ai Bayaka venne sottratta un’ampia porzione della loro terra ancestrale, da destinare a conservazionisti, biologi e turisti.


La Wildlife Conservation Society (Wcs) – una delle più grandi organizzazioni americane per la conservazione, legata allo Zoo del Bronx di New York – contribuì a creare il parco, senza però prima ottenere il consenso della tribù. Oggi la Wcs gestisce l’area finanziando anche le squadre antibracconaggio che impediscono ai Bayaka di entrare in quella che è la loro casa.


Non solo. L’organizzazione ha stretto partnership con due compagnie del taglio del legname che operano in un’area intorno al parco, sempre terra della tribù. Secondo la versione ufficiale, le due società – Cib e Ifo – dovrebbero promuovere un taglio del legname più “sostenibile”, ma la realtà è ben differente. Diversi ricercatori indipendenti e organizzazioni di advocacy, tra cui Greenpeace, denunciano infatti che nella regione il taglio del legname continua a ritmi insostenibili e – addirittura – studi recenti mostrano che la foresta scompare a un ritmo più veloce proprio nelle aree delle concessioni che dovrebbero essere “sostenibili”.


Gli abusi commessi dai guardaparco nei confronti degli indigeni sono stati denunciati da molti osservatori, tra cui le Nazioni Unite, fin dal 2004, ma a oggi non è mai stata messa in atto nessuna misura efficace per evitarli: i Bayaka che cercano di entrare nel parco rischiano ancora pestaggi e torture, e spesso sono accusati di “bracconaggio” perché cacciano per nutrire le loro famiglie.


Ma i popoli indigeni sono i migliori conservazionisti e custodi del mondo naturale, le prove dimostrano che sanno prendersi cura dei loro ambienti e della fauna meglio di chiunque altro. «Nella foresta ci sono i nostri spiriti – ha raccontato Eboukou a Survival –. Essi garantiscono l’abbondanza nella foresta e impongono ai Bayaka di comportarsi in un certo modo: non prendere dalla terra più del necessario, e condividerlo». Studi antropologici hanno dimostrato come questo sistema di pensiero, chiamato ekila, costituisca una forma efficace di gestione ambientale.


Contrariamente a quanto sostengono le organizzazioni per la conservazione, tra cui la stessa Wcs, quei territori non sono affatto “selvaggi” o “vergini”: popoli come i Bayaka li hanno vissuti, plasmati e gestiti per centinaia di anni. “Un Bayaka ama la foresta come fosse una parte del suo corpo”, recita un detto locale, e infatti i Bayaka sono nella posizione migliore per difenderla, e prendersene cura è parte della loro vita quotidiana. Sanno anche riconoscere per primi le varie minacce che il loro ambiente deve affrontare: per esempio, individuano i segni dei cambiamenti climatici, capiscono se una specie di albero sta diventando rara a causa del disboscamento, o se i bracconieri cacciano eccessivamente in determinate aree.


È un legame inscindibile. Per questo, quando vengono sfrattati dalle loro terre ancestrali, non sono solo i popoli indigeni a risentirne, ma lo stesso ambiente, che viene privato dei suoi tradizionali custodi. Prendere di mira i cacciatori indigeni distoglie l’attenzione dalla lotta ai veri bracconieri: criminali collusi con funzionari corrotti. Un esempio: le nuove strade aperte all’interno delle foreste dei Bayaka dalle compagnie del legname vengono utilizzate dai bracconieri e dai trafficanti, nei confronti dei quali le guardie forestali risultano completamente impotenti se non complici.


Proprio questo è il paradosso: i popoli indigeni vengono sfrattati illegalmente dalle loro terre ancestrali nel nome della conservazione della flora e della fauna, e intanto quelle stesse terre vengono aperte al turismo, ai cacciatori di trofei, al bracconaggio e alle imprese che ne sfruttano le risorse.


Intanto, a 10.000 chilometri di distanza, mentre le foreste congolesi vengono private dei loro abitanti originari, lo Zoo del Bronx – gestito dalla stessa Wcs – ha creato la più grande riproduzione esistente al mondo di foresta pluviale africana. Gli oltre due milioni annui di visitatori dello zoo lo fanno ignari di contribuire, con il loro biglietto d’ingresso, ad alimentare queste atrocità. Non è forse una grande truffa, con conseguenze drammatiche per i popoli indigeni, per la natura e per tutta l’umanità?


Francesca Casella

Da "Il Blog di Africa"



Francesca Casella è direttrice della sede italiana di Survival International, il movimento mondiale che lotta per la sopravvivenza dei popoli indigeni in tutto il mondo. In 50 anni Survival ha ottenuto molti successi, aiutando decine di popoli a difendere le loro vite, a proteggere le loro terre e a determinare autonomamente il loro futuro.


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